Quando ho scritto la mia pagina su La Maturazione di un Impasto avevo accennato anche a questo problema, dando quelle che a me sembravano le informazioni essenziali, ma leggendo le tante discussioni in rete su questo argomento, mi sono reso conto che avevo semplificato troppo un problema che è invece importante per molti, e quindi cercherò di essere più dettagliato in questo articolo, nei limiti delle mie conoscenze, ovviamente.
L’argomento in discussione è l’uso del frigo, o meglio: cosa succede ad un impasto in frigo? Perché qualcuno consiglia di stare un paio di gradi sopra i 4ºC? Ma un lungo periodo in frigo è del tutto equivalente ad un breve periodo a Temperatura Ambiente (TA)? Ma è vero che la “maturazione” continua? etc etc…
Non tutte queste domande possono avere una risposta chiara e univoca, perché le variabili in gioco sono davvero tante, e tenere conto di tutte è praticamente impossibile. Bisogna un po’ semplificare per potar dare risposta ad almeno alcuni casi più importanti.
Partiamo da un esempio: se metto della farina in frigo non succede niente, o meglio, la farina si raffredda e non c’è pericolo che si sviluppino “farfalline” dalle larve inevitabilmente contenute nella farina. Anche se nella farina ci aggiungo il lievito continua a non succedere niente.
Perché succeda qualcosa ci devo aggiungere acqua, in una quantità sufficiente.
Se l’acqua è necessaria e deve essere abbastanza, la sua quantità avrà magari influenza su cosa succede dopo? Eccerto!!! L’idratazione è uno dei parametri fondamentali che viene spesso ignorato o perlomeno sottovalutato.
Perché l’acqua è così importante? Perché le sue molecole piccole, ma con un forte campo di dipolo (la coppia di atomi di idrogeno legato a quello di ossigeno formano tra di loro un angolo piuttosto stretto, cioè sono entrambi dalla stessa parte rispetto all’ossigeno e generano un’asimmetria della carica elettrica della molecola) riescono a penetrare facilmente entro le grosse molecole delle proteine e dei grumi di amido, forzando dei movimenti di cariche elettriche che portano a formare nuovi legami tra parti diverse e quindi ad avere una diversa struttura tridimensionale.
Ma formano anche una specie di “bagno” dove le molecole “solubili in acqua” diventano singolarmente libere e la loro energia cinetica le porta a muoversi più o meno liberamente, anche se a breve raggio.
E gli enzimi, che sono proteine solubili, altrimenti non potrebbero essere enzimi, hanno bisogno di muoversi nella soluzione acquosa per poter svolgere la loro funzione. Per muoversi efficientemente hanno bisogno che la soluzione sia sufficientemente “acquosa”, e se è più acquosa meglio, e di avere un minimo di energia cinetica (e anche qui, più ne hanno meglio è) e l’energia cinetica delle molecole significa temperatura dell’impasto.
Anche batteri e lieviti avrebbero bisogno di muoversi per andare a procurarsi il loro nutrimento, ma sono cellule molto grosse, rispetto alle molecole che li circondano, e senza capacità di movimento. Certo un poco si muovono, colpite dalle molecole in moto browniano, ma per tutti gli effetti pratici sono fermi. È quindi molto importante per loro che si muovano le molecole da cui traggono sostentamento, anche se, come abbiamo visto, il movimento di queste molecole non è molto ampio e quindi nel tempo nei dintorni di lieviti e batteri vengono a mancare le loro sostanze nutritive, ma non solo, perché il loro metabolismo genera “rifiuti” che rimangono nei dintorni, rendendo sempre più difficile trovare nuove risorse.
Questa è la ragione principale della tecnica della doppia lievitazione, dove dopo una manipolazione dell’impasto (tipicamente la preforma e la forma finale) batteri e lieviti si vengono a trovare in un ambiente diciamo “vergine” e possono riprendere la loro attività.
Ma torniamo un po’ indietro: dovrebbe quindi essere chiaro che maggiore idratazione e maggiore temperatura favoriscono sia le attività biologiche di batteri e lieviti che quelle puramente chimiche degli enzimi, il freddo non ferma solo le prime e non le seconde.
Poi incominciamo a capire che idratazione e temperatura agiscono in modo diverso su questi due aspetti: non possiamo compensare nello stessa modo per l’attività biologica e per quella chimica una minore temperatura con una maggiore idratazione, o viceversa. Tra l’altro diversi ceppi di batteri e lieviti hanno un’attività che dipende in modo fortemente differente dalla temperatura, per cui a certe temperature sono favoriti alcuni e non altri.
E quindi si incomincia a capire quanti parametri diversi sono in gioco, e che quindi non esiste una soluzione semplice.
Ma torniamo al frigorifero.
Credo che sia abbastanza chiaro che a zero ºC tutte le attività, biologiche e chimiche, siano sostanzialmente ferme, perché l’acqua ghiaccia, e non c’è più alcuna mobilità molecolare. Se aumentiamo un poco la temperatura, l’acqua diventa liquida e qualcosa incomincia a funzionare, ma le energie in gioco sono davvero basse e praticamente non succede quasi niente (notare il “quasi”, per i pignoli). Aumentando ancora un po’ la temperatura, succede una cosa strana, che è alla base della vita sulla terra: la densità dell’acqua aumenta, fino a 4 ºC dove raggiunge il suo massimo (è la ragione per cui il ghiaccio galleggia e gli oceani non sono una massa di ghiaccio). Per cui è vero che le molecole hanno più energia, ma si muovono in un ambiente più denso, e quindi con maggiore difficoltà. Quindi fino a 4 ºC è “praticamente” tutto fermo.
Superati i 4 ºC le molecole acquistano più energia (anche quelle che formano le cellule di batteri e lieviti, che incominciano ad avere un metabolismo visibile) e si muovono in un ambiente meno denso, per cui incominciano, lentamente, la loro attività.
Ma a questo punto bisogna introdurre un ulteriore elemento che va inevitabilmente a complicare una situazione già non tanto semplice: l’attività enzimatica (ma in minima parte anche quella biologica di lieviti e batteri) è fortemente influenzata dal livello di acidità dell’ambiente in cui si trovano ad operare, cioè dell’impasto. Per cercare di capire qualcosa, semplifichiamo il discorso alle due attività enzimatiche più conosciute: le amilasi che scindono le macromolecole dell’amido in parti più piccole (alfa-amilasi) o in molecole individuali di maltosio (beta-amilasi), e le proteasi, un largo numero di proteine che scindono i legami delle macromolecole proteiche (depolimerizzazione delle proteine che rende l’impasto più rilassato e plastico) fino a liberare dei singoli amminoacidi utili per molte funzioni biologiche di lieviti e batteri e poi per le Reazioni di Maillard in cottura.
Le amilasi lavorano efficacemente in ambiente neutro o leggermente acido, diciamo fino all’acidità di una biga. Sono poi sempre più inibite all’aumentare dell’acidità fino ad una totale inattività ad una acidità inferiore a pH4, quella della pasta madre.
Al contrario, le proteasi (ma non hanno tutte un comportamento identico) tipicamente sono poco attive in ambiente neutro e aumentano la loro attività al crescere dell’acidità, con un massimo verso pH4, e una riduzione piuttosto violenta ad acidità maggiori.
Ora possiamo anche capire perché il problema di un impasto in frigo è davvero complesso e dipenda da tantissimi parametri sostanzialmente indipendenti.
Per rendere la comprensione più semplice conviene esaminare alcuni casi particolari.
Se l’impasto è un diretto con solo lievito di birra, la sua acidificazione è molto lenta e sempre piuttosto debole. Se mettiamo l’impasto in frigo (a parte alcuni aspetti fisici di cui parlerò dopo) l’attività dei lieviti diminuirà, e l’acidificazione dell’impasto rimarrà estremamente debole. Potranno agire solo le amilasi, anche queste bloccate dalla bassa temperatura, producendo un poco di maltosio che i lieviti utilizzeranno a fatica, data la temperatura. Mettere un diretto in frigo a meno di 4 C significa davvero paralizzarlo.
Se si usa un prefermento, biga o poolish, questo apporterà una leggera acidità all’impasto finale, che inizierà ad attivare le proteasi. Se la permanenza in frigo è lunga, e se la temperatura può oscillare anche leggermente sopra i 4ºC, l’attività delle protesi può diventare avvertibile, favorendo specialmente la depolimerizzazione del glutine, rendendolo più plastico e meno elastico (più gestibile manualmente. Lo dico perché mi sono accorto di quante persone non hanno idea di cosa significa esattamente “elastico”, che significa che dopo stirato ritorna decisamente alla sua posizione iniziale).
Se invece si usa pasta madre, con tutte le enormi differenza tra una e l’altra, l’acidità iniziale dell’impasto è maggiore, anche in dipendenza di che percentuale di pasta madre si usa, e quindi le proteasi sono abbastanza attive da subito (mentre le amilasi incominciano ad avere problemi, per cui molti impasti finiscono con carenza di zuccheri liberi, compensabile con l’aggiunta di malto diastasico all’impasto). La struttura glutinica è quindi maggiormente indebolita (e questo spiega la necessità di usare farine forti quando si fanno questi impasti), ma la maggiore disponibilità di amminoacidi liberi, insieme ai sottoprodotti di batteri e lieviti, a partire dagli acidi stessi, lattico e acetico, permettono la generazione di tante molecole aromatiche, sia in cottura che prima.
Due parole sulla fisica del raffreddamento, che ha ovviamente la sua importanza.
L’impasto in frigo è normalmente contenuto in un involucro di plastica, che è teoricamente un isolante. In condizioni standard il raffreddamento in frigo avviene per contatto con aria fredda, che non è un meccanismo particolarmente efficiente, e dipende anche se il frigo è a parete fredda o a circolazione di aria. Le differenze di velocità di raffreddamento tra un frigo e l’altro possono essere molto grandi, ma è in ogni caso un processo lento. L’impasto inizia poi a raffreddarsi sulla superficie, ed essendo lui stesso un isolante, specialmente se ha già un contenuto di gas, prima che l’interno raggiunga la temperatura esterna, quella del frigo, ci vuole tempo. Maggiore la massa dell’impasto più lungo il tempo, ma è anche molto importante la forma dell'aimpasto, cioè il rapporto tra volume e superfice che le varie forme possono avere. Una sfera ha il minimo rapporto, e il raffreddamento dell'interno sarà più lento, mentre un impasto schiacciato come un foglio si raffredderà in un tempo minore. Nel mezzo ci sono tutti i casi reali, e nel tempo di raffreddamento tutti i vari processi chimici e biologici della fermentazione e della “maturazione” possono agire, anche se sempre più lentamente, via via che l’impasto si raffredda.
Questo è quasi sempre la ragione principale per lo sviluppo di impasti tenuti in frigo a 4 ºC o meno, ma non va sottovalutata la variabile tempo: anche a 4 ºC effettivi, una permanenza di un impasto per 24 ore in più una differenza, non eccessiva, ma visibile, la fa. La maggiore plasticità dell’impasto è avvertibile. Per cui passare da 24 a 48 ore di permanenza a 4 ºC, se l’impasto è fatto adeguatamente, ha delle conseguenze in termini di plasticità e di aromaticità. Niente di eccezionale, ma chiaramente avvertibile.
Attenzione però alla temperatura effettiva, perché basta che la temperatura media, con le varie aperture e cibi caldi inseriti, arrivi verso i 6 ºC che le 24 ore aggiuntive diventano decisamente troppe. |
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