Riformisti senza riforme
Michele Castellano
(29/12/2004)
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La lettura del piccolo libro di Napoleone Colajanni e Marcello Villari “Riformisti senza riforme”, Marsilio 2004, offre moltissimi spunti di riflessione, ben al di la’ anche delle proposte esplicitamente presentate nel libro.
E’ organizzato come una intervista di Villari a Colajanni, con domande e risposte, ma e’ organizzato per capitoli, ed ha un evidente piano di sviluppo.
Come tutte le interviste, con domande che richiederebbero un libro per avere una risposta completa ad ognuna di esse, molte affermazioni sono banalita’, molte non sono ben giustificate, delle altre molte sono condivisibili e molte non lo sono.
Ma il pregio principale del libro e’, a mio parere, che stimola riflessioni nel lettore, o almeno in chi e’ disposto a farsi stimolare.
In questa piccola nota, vorrei fare alcune considerazioni su pochi spunti dalla prima parte del libro, sperando di poterne aggiungere altre in seguito.
(In corsivo brani dal libro. In nero le domande di Villari ed in rosso le risposte di Colajanni)
(pag. 25)
Entriamo a questo punto nel tema della nostra discussione. Provare a capire, cioe’, se esiste ancora realisticamente un futuro per il socialismo europeo.
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La socialdemocrazia deve tornare ad essere una forza riformista per poter riproporsi come forza propulsiva, politica e sociale. Insomma puo’ riconquistare egemonia, nel senso classico gramsciano, solo tornando ad affrontare i problemi reali del mondo. E per far questo le questioni essenziali con cui misurarsi, secondo me, sono tre: la prima e’ il problema dello Stato e della decadenza della politica; la seconda e’ quella della ripresa dello sviluppo delle forze produttive; la terza e’ la situazione internazionale con la globalizzazione e l’egemonia americana.
(pag. 27)
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Vediamo allora in che cosa differisce il riformismo di Prodi da quello della nostra tradizione: e’ la funzione dello Stato. Nella visione di Prodi la politica di riforme ha un impianto tecnocratico, nel senso che non ha come obiettivo l’intera societa’, ma una somma di singole misure, a cui dovrebbe dare unificazione una certa impronta solidaristica. Egli, ecco il secondo punto, concepisce lo Stato come regolatore e non come protagonista. Il che non vuol dire che non sia riformista…
In sostanza viene da quella tradizione cattolico-democratica che con uno slogan potremmo definire <tecnocrazia piu’ solidarieta’>…
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La politica del riformismo socialista italiano, invece, dovrebbe partire da altri presupposti ed essenzialmente da una rimeditazione della funzione dello Stato, che certo non si esaurisce nella convinzione che solo quello che e’ pubblico sia accettabile e buono, ma che dia ad esso il posto che gli spetta se si vuole riprendere la crescita. Parliamoci chiaro: non si puo’ pensare oggi, nell’epoca della globalizzazione, ad una ripresa della crescita adeguata alle necessita’ di innovazione e di occupazione, anche in Europa, senza un intervento pubblico, sia a livello nazionale, sia degli organismi europei. E’ semplicemente impossibile, spontaneamente non avverra’ mai, per le ragioni che abbiamo detto.
Nel primo brano che ho riportato, e’ presentato una specie di riassunto dell’intera discussione, che vertera’ sostanzialmente su quei tre punti.
Nel secondo brano viene specificato di piu’ quello che Colajanni intende per “problema dello Stato”. Viene ovviamente detto molto di piu’ nel seguito, ma avrei dovuto riportare l’intero volumetto…
Su questo argomento credo che Colajanni rimanga troppo legato alle vecchie concezioni socio-comuniste del ruolo dello Stato nell’economia di un paese. Nonostante sembri capire abbastanza bene le modificazioni della struttura produttiva capitalistica, con l’avvento ed il predominio della finanza e delle multinazionali, non sembra avvertire alcuna variazione nelle capacita’ di intervento nello stato, non come “regolatore”, funzione che in minima parte ancora puo’ assolvere, ma come promotore diretto di forme di produzione.
In realta’ uno stato come l’Italia ha ormai perso quasi del tutto la capacita’ di intervenire sui processi produttivi. La “delocalizzazione”, condizione naturale per la gestione finanziaria, ha un enorme peso anche per la parte produttiva, ma mentre nel passato era possibile solo a grandi imprese, e specialmente nei paesi del sud-est asiatico, con l’apertura di paesi come la Slovacchia e la Romania e’ diventata conveniente anche ai “padroncini” del nord-est italiano, che si sono buttati a frotte su questa possibilita’. La convenienza di spostare le sedi produttive di un’azienda non dipendono solo dal costo della manodopera locale, ma anche da molti altri fattori, quali il livello fiscale, quello dei controlli di sicurezza, le difficolta’ burocratiche etc etc. Quindi uno “Stato” come l’Italia vede diminuire enormemente il proprio potere di stabilire regole di comportamento, leggi di salvaguardia, livelli di tassazione, in modo indipendente dai paesi che la circondano. Per le grandi imprese il “circondario” e’ il mondo stesso.
Solo “Meta-stati”, come l’Europa, se avessero veramente regole comuni condivise, avrebbero anche la forza per imporle al proprio esterno. Ma l’Europa non ha una politica economica comune, ed ancora meno una politica comune.
Cosi’ come stanno le cose, e’ iniziata una corsa al ribasso. Meno garanzie, meno regole, meno tasse…. E’ la ricetta vincente, se non si interviene in qualche modo. Lo sviluppo tumultuoso, ed in un certo modo incontrollato, della Cina non fa che peggiorare la situazione.
Qui e’ dove un riformismo “socialdemocratico” (uso il nome per convenienza) moderno deve intervenire, a livelli di generalita’ che superi il vecchio concetto di Stato nazionale. Ma e’ su questi temi che mi sembra di vedere una incapacita’ elaborativa della sinistra, non solo italiana.
Sulla vecchia questione se sia meglio il pubblico o il privato, Colajanni ha capito che non vi e’ alcuna ragione assoluta a favore dell’una o dell’altra soluzione, ma conserva ancora una certa predilezione per il pubblico, specialmente per i servizi.
Non vi e’ alcun dubbio che, oggi, il discorso sia concentrato sopratutto sui servizi, dato che la produzione di beni materiali di consumo si e’ dimostrata poco adatta ad un intervento diretto pubblico e, per tutto quello detto sopra, ormai il controllo e’ sfuggito di mano ad ogni stato, o sta per farlo. Ma anche sui servizi sembra sfuggire che la pubblica utilita’, obiettivo dei servizi stessi, e’ molto meglio salvaguardata da una reale capacita’ di controllo pubblico, indipendentemente dalla ragione sociale dell’erogatore del servizio stesso. Solo che un controllo efficiente e’ molto piu’ difficile ed impegnativo di un semplice possesso (e offre molte meno occasioni di clientelarismo politico-sindacale, causa questa della maggior parte dell’inefficienza del cosiddetto “pubblico”), ma e’ anche il vero ed unico modo di garantire la pubblica utilita’. La discussione sul possesso e’ una falsa discussione.
(pag. 29-30)
E allora, come si dice, parliamo di politica. Nel senso che tra i punti di un progetto riformista hai messo al primo posto la riforma dello Stato e della politica. Partiamo da qui.
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Voglio dire che per superare la crisi evidente della politica occorre che i protagonisti cambino atteggiamento, o meglio che lo cambi uno dei protagonisti perche’, di fronte a un’opposizione socialista che avesse una visione generale della trasformazione della societa’, anche la destra sarebbe costretta, per contrastare una forza di questo tipo, ad assumere un atteggiamento diverso. In sostanza, solo la sinistra con il suo patrimonio ideale e culturale puo’ cambiare la situazione. Se non si muove saremo condannati a restare nel pantano. Ma intanto c’e’ una questione preliminare: perche’ la politica e’ in queste condizioni? La risposta e’: perche’ e’ cambiata la struttura del capitalismo. Prima, diciamo all’epoca della lotta di classe e della classe operaia come classe generale, l’accumulazione era regolata dal conflitto tra capitale e lavoro, a cui corrispondeva una contrapposizione tra destra e sinistra. Non dico certo che le idee non contassero nulla, ma solo che a partire dal secolo XIX, con la nascita dei partiti socialisti, cambia il modo di fare politica. Adesso le cose sono mutate ancora una volta e possiamo parlare di un processo sociale di accumulazione e di formazione di un surplus a livello sociale, di una differenza tra il prodotto e i costi di tutta la societa’: oggi il conflitto sociale si esprime nella lotta per accaparrarsi quantita’ maggiori di tale surplus. Questo dovrebbe essere un riferimento costante per una forza riformista che voglia capire quali siano realmente le parti in campo.
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(pag. 33)
E allora vediamo cosa vuol dire lotta politica e sociale per l’appropriazione del surplus sociale.
Vuol dire tante cose, nelle svariate situazioni che ci sono nella nostra realta’. E tuttavia la questione di fondo e’ che la funzione dello Stato nella ripartizione del reddito diventa decisiva. E nello stesso tempo il conflitto si frantuma per la molteplicita’ di gruppi di interesse. E cosi’ anche i vavoratori, che al tempo della lotta di classe si battevano in fabbrica per la ripartizione del plusvalore e incidevano sul processo di accumulazione, oggi cercano di avere leggi a loro favorevoli per le pensioni ecc. e in questo modo partecipano al conflitto per la ripartizione del surplus sociale. Insomma, parliamoci chiaro, questa non e’ piu’ quella lotta di classe carica di idealita’ e intrisa di una visione generale della societa’ di un tempo, ma scontro di interessi per l’appropriazione di fette di surplus. La politica attuale rispecchia questo livello di conflitto, di lotte di gruppi, non di lotte di classe. E ognuno di questi gruppi non ha piu’ di mira l’interesse generale, ma solo il proprio interesse.
Qui Colajanni coglie alcuni aspetti del cambiamento avvenuto nella societa’ capitalistica moderna, ma non e’ in grado di deriverne delle nuove strategie. Un po’ perche’ rimane legato a vecchi schemi, come “l’interesse Generale” che la classe operaia evrebbe perseguito nel passato. Questo non e’ mai stato vero. Ogni gruppo sociale ha sempre perseguito i suoi interessi particolari, solo che, per una illusione derivata da un’estrapolazione piuttosto azzardata fatta da Marx, probabilmente per il suo solido substrato idealistico, e per una ovvia convenienza tattica, per molti anni i partiti comunisti si sono fatti forti di questo presupposto “interesse generale” che la classe operaia perseguiva automaticamente perseguendo il proprio particolare interesse. La classe operaia ha perso ogni ruolo innovativo, come altre classi subalterne nel passato, senza che la societa’ ne sia rimasta sconvolta. La servitu’ della gleba ha attuato qua e la’ rivolte anche molto violente, ma e’ scomparsa travolta dallo sviluppo della societa’. Lo stesso succedera’ molto probabilmente per la classe operaia, e le avvisaglie sono gia’ apparenti.
Ora, come e’ costretto ad osservare Colajanni, si confrontano gruppi diversi, con interessi contrapposti ma non chiariti da alcuna analisi socio-economica adeguata a quella fatta a suo tempo da Marx.
Non esiste ancora una chiarezza di sviluppo, ma, come dimostra chiaramente Immanuel Wallerstein, siamo vicini ad un cambiamento obbligato. In che direzione ancora non lo sappiamo, ma saranno i ceti sociali che di fatto avranno la capacita’ di gestire il nuovo ordine che evolveranno nella nuova classe dirigente. Una mia idea l’ho gia’ proposta, come un possibile sviluppo.
E’ ovvio quindi che in questa situazione anche l’azione politica dei partiti di sinistra ne risenta pesantemente, ed in questo Colajanni ha perfettamente ragione. Solo che non puo’ essere una soluzione il ritorno allo Stato come elemento salvifico, per tutto quello detto in precedenza.
Credo che una linea nuova vada cercata attraverso un’analisi socio-economica della societa’ moderna, basata sul materialismo storico, che dell’ereditarieta’ di Marx rimane il caposaldo piu’ stabile. Nel frattempo credo che un’azione basata sui piccoli passi, piccoli ma sicuri, sia meglio delle avventure basate su idealistiche visioni di societa’ di fantasia, per quanto accattivanti possano essere.
Credo che la storia dovrebbe averci insegnato, nel modo piu’ duro, che andare contro le sue leggi puo’ essere estremamente doloroso.
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