Investire nella Ricerca Scientifica e' sufficiente?

Michele Castellano
(13/08/2005)

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L’economia italiana e’ in difficolta’. L’industria sta perdendo competitivita’ internazionale, e le esportazioni tendono a diminuire, perche’ sottoposte a concorrenza diretta con i prodotti dei paesi emergenti, in rapida industrializzazione, con un mercato interno enorme e con costi del lavoro estremamente bassi, almeno per ora.

Da molte parti si leva un invito ad aumentare i fondi per la ricerca scientifica, senza la quale la situazione non potra’ che peggiorare, perche’ non possiamo fare concorrenza alla Cina o all’India sul basso costo del lavoro.

A parte che, a fronte di questa richiesta, il finanziamento pubblico alla ricerca scientifica e’ diminuito sia in termini relativi che in termini assoluti, e quello privato da insignificante e’ passato a sostanzialmente nullo, qualunque cosa dica l’esimia persona che occupa, non si sa perche’, la carica di Ministro della Istruzione e della Ricerca (il “pubblica” e’ stato opportunamente eliminato, visto che l’istruzione e’ ormai solo facoltativa e a pagamento), il problema non e’ comunque cosi’ semplice.

Il passaggio tra il finanziare la ricerca scientifica ed aumentare il valore tecnologico della produzione industriale italiana non e’ purtroppo diretto, ne’ semplice da mettere in opera.

Per cercare di capire il perche’, e il cosa dobbiamo fare, come paese nel suo complesso, partiamo dall’analisi di cosa e’ la ricerca scientifica, nella sua realta’, non nella fantasia di qualcuno.

Esiste un ampio settore della ricerca scientifica, che interessa praticamente tutte le discipline, che e’ chiamata “ricerca di base”, perche’ si propone come obiettivo semplicemente la migliore conoscenza del mondo, senza alcuna ambizione di sfruttare questa conoscenza. E’ la pura curiosita’, caratteristica ben diffusa tra gli umani, a spingere molta gente a passare il loro tempo nell’indagare la natura, spesso senza grandi ritorni economici.

L’astrofisica, l’archeologia, la paleontologia, lo studio delle interazioni fondamentali delle particelle elementari sono alcuni esempi di settori in cui, con tutta la migliore buona volonta’, non si potrebbe trarne alcuna applicazione diretta (non significa che non abbiano ricadute tecnologiche o scientifiche utilizzabili, ma lo vedremo piu’ avanti).

Esiste poi il vastissimo settore della ricerca applicata. Sotto questa voce ci va un po’ di tutto, ma sostanzialmente rappresenta la via di mezzo tra la ricerca fine a se stessa e il cercarne una possibile utilizzazione. Cioe’ la ricerca e’ a volte di tipo generale, ma e’ guidata dall’interesse a derivarne delle applicazioni che abbiano un mercato industriale. Il risultato operativo non e’ garantito, ma la scelta degli argomenti di ricerca, e le differenti enfasi sui possibili filoni che si prospettano, e’ guidata in modo prioritario dalla possibilita’ di derivarne applicazioni industrializzabili.

Il terzo livello e’ quello della ricerca industriale, in cui l’obiettivo e’ limitato ad ottenere, o a ottimizzare, un prodotto da vendere. Normalmente si tratta di un’applicazione di risultati ottenuti in altra sede, e rivisti ed adeguati all’interesse particolare.

Vorrei che fosse chiaro che questa che ho presentato e’ una schematizzazione fatta per chiarezza. Nella realta’ i confini tra un settore e l’altro non esistono, e si passa con continuita’ da una situazione in cui e’ chiaro che si tratta di pura ricerca di base ad un’altra in cui e’ evidente la finalita’ applicativa, passando da situazioni ibride, che sono un po’ una cosa e un po’ l’altra.

La ricerca di base e’quasi completamente finanziata con fondi pubblici, e la cosa sembra logica, data la mancanza di ogni interesse direttamente applicativo. Ma non mancano esempi di grosse societa’ che hanno investito in qualche settore della ricerca di base di loro interesse, forse non soddisfatte dell’entita’ dell’impegno pubblico. Ma sono poche eccezioni.

La ricerca applicata e’ invece fortemente finanziata, in campo internazionale, dalle imprese private, ma riceve anche forti sovvenzioni pubbliche, specialmente quando si cerca di favorire lo sviluppo di qualche settore industriale. Il finanziamento privato di questo tipo di ricerche puo’ assumere molte forme: da un finanziamento diretto ad una Universita’ o ad un ente di ricerca perche’ effettui ricerche per conto dell’impresa, ad una ricerca comune tra ricercatori propri dell’impresa e gruppi universitari, fino alla ricerca esclusivamente svolta in campo aziendale. Anche il contributo pubblico puo’ essere diverso: dal cofinanziamento di attivita’ comuni, al finanziamento diretto della ricerca aziendale attraverso “bandi” di ricerca aperti a tutti, a facilitazioni fiscali alla ricerca privata.

Merita comunque attenzione il fatto che una delle fonti piu’ importanti, ed in alcuni casi maggioritaria, del contributo pubblico alla ricerca applicata e’ attraverso il finanziamento alla ricerca di interesse militare. Dico “di interesse” perche’ ad esempio il finanziamento del Dipartimento della Difesa USA e’ stato, nel 2002, ma in totale coerenza con i finanziamenti degli anni precedenti, di 5 miliardi di dollari, di cui un terzo per ricerche di base (su argomenti vari, ma ben selezionati) e due terzi per ricerche applicate, quindi viene finanziato anche il “possibile” risultato di interesse militare.

Sull’importanza della ricerca di interesse militare per l’insieme della ricerca scientifica applicata in paesi come gli USA, l’Inghilterra e la Francia, per citarne alcuni, bisognera’ fare un discorso a parte, perche’ non e’ solo questione di quantita’ di finanziamento, ma anche, se si puo’ chiamare cosi’, di metodo, che permette alle industrie del settore di investire a loro volta ingenti risorse e di averne enormi tornaconti. Altrettanto grandi sono stati pero’ gli sviluppi tecnologici che, dopo un adeguato periodo di “latenza”, si sono trasferiti in ambiente civile.

Prima di passare ad esaminare la situazione italiana, conviene fare qualche cenno al complesso processo che porta dalla ricerca scientifica, anche applicata, cioe’ comunque tesa ad un risultato utilizzabile, alla esistenza di un prodotto di mercato innovativo.

Il risultato della ricerca scientifica e’ ben diverso da un’invenzione, anche se puo’ succedere che un’invenzione puo’ essere ottenuta durante la ricerca. Il risultato della ricerca scientifica e’ tipicamente la scoperta di nuovi fenomeni, o una piu’ completa comprensione di fenomeni conosciuti, in modo da poterne predire i comportamenti. E’ cioe’ una maggiore conoscenza su aspetti della realta’ che hanno interessi applicativi. Da questo e’ qualche volta possibile ricavare un prodotto o un procedimento innovativo che puo’ avere un mercato. Non e’ raro il caso che a definire un possibile prodotto siano persone diverse da quelle che hanno sviluppato la base per questa possibilita’, semplicemente perche’ occorrono capacita’ ed esperienze diverse.

A questo punto il possibile prodotto deve essere analizzato completamente da molti punti di vista: il dettaglio del procedimento di una sua produzione industriale, con valutazione di tutte le tecnologie necessarie, la sua collocazione di mercato, con una valutazione delle possibilita’ di diffusione la piu’ chiara possibile, il suo design, il suo costo di produzione e il prezzo di vendita ottimale. L’industria che ha intenzione di proporre questo nuovo prodotto deve garantirsi la disponibilita’ di tutte le tecnologie intermedie necessarie e, se deve rivolgersi ad altri per alcune di queste, garantirsi la conservazione dell’esclusiva del prodotto stesso, al di la’ di un possibile brevetto, perche’ a volte bastano poche informazioni per creare dei competitori agguerriti.

Tutto questo deve essere effettuato da personale qualificato, che sa quello che fa, per ognuno di questi passi. L’impresa deve avere quindi una struttura organizzativa, con personale e competenze dedicate, nonche’ risorse finanziarie per far partire il progetto e far anche fronte a qualche inevitabile insuccesso. Introdurre innovazioni sul mercato, partendo dalla ricerca, e’ un processo complesso e costoso, ma indubbiamente puo’ rendere anche molto.

Veniamo ora alla situazione italiana.

La ricerca di base, completamente finanziata da fondi pubblici, e’ mediamente di buon livello internazionale, con evidenti alti e bassi tra le varie discipline, e con i livelli di competitivita’ internazionale piu’ bassi maggiormente presenti in settori confinanti con la ricerca applicata. I suoi limiti principali derivano dallo scarso finanziamento generale e da problemi comuni all’intera societa’ italiana, quali la scarsa retribuzione delle competenze tecnico-scientifiche, che sta riducendo al minimo le iscrizioni alle facolta’ universitarie di indirizzo scientifico, l’assurdo tutto italiano di un Dottorato di Ricerca che non ha alcun valore pratico sul mercato del lavoro, tranne in quello accademico, e puo’ rappresentare addirittura un handicap in molte situazioni. Ma questo e’ un discorso molto complesso, e deve essere fatto con la dovuta attenzione.

Torniamo invece alla ricerca scientifica.

Moltissime delle piccole aziende italiane sono partite da un idea innovativa di un prodotto, di un procedimento, dalla capacita’ di fare meglio degli altri qualche cosa. Poi sono qualche volta riuscite ad allargarsi, migliorando il prodotto, introducendone di nuovi, innovando le procedure, mantenendo alta la qualita’, conquistandosi la propria nicchia di mercato. Queste stesse industrie sono anche riuscite ad allargare il mercato stesso attraverso l’ottimizzazione dell’intera filiera che porta al prodotto finito, in collaborazione concorrenziale con altre aziende dello stesso settore, nei cosiddetti “distretti”.

Tanto lavoro, qualche buona idea, un po’ di onesta evasione fiscale di vario tipo…. Queste sono state le ragioni del successo, fino a non tanto tempo fa, della piccola e media impresa italiana. E non parlo di quelle, che pure ci sono, del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro a domicilio esentasse o del lavoro degli immigrati.

Ricerca scientifica zero: non sono in grado di farla e non sono in grado di sfruttarla, se anche qualcuno la facesse per loro. Quando l’idea iniziale, o i suoi naturali sviluppi, non bastano piu’, hanno perso il loro vantaggio di mercato, allora si cerca di ottimizzare la produzione, di ridurre i costi, si evade un po’ di piu’, si raschia il fondo del barile…. E poi si chiude o si “delocalizza”, per ridurre ancora il costo del lavoro e tirare avanti un altro po’.

La consapevolezza di questa debolezza, e delle sue conseguenze, incomincia anche a farsi strada in termini concreti nell’analisi politica dell’economia italiana. Nel bel libretto di Bersani e Letta [1], centrato in particolare sui distretti industriali, la comprensione del problema e delle sue implicazioni e’ chiara, ma dallo stesso libretto risulta altrettanto evidente che non si conoscono delle soluzioni immediate, al di la’ delle solite parole di prammatica sullo sviluppo della ricerca scientifica e sul legame da creare tra Universita’ e industria. Il problema vero e’ “come” realizzare questo legame, “come” costringere, attraverso incentivi veramente efficaci, le industrie a crearsi al loro interno le strutture, e le persone, adatte per poter sfruttare la ricerca scientifica che, magari su stimolo o commissione, altri possono svolgere.

Questo solo fatto comporta una rivoluzione nella struttura tipica delle nostre aziende, nel loro modo di pensare, e nella gerarchia ormai consolidata al loro interno. Non e’ indolore, e non e’ nemmeno capita, nella maggior parte dei casi.

Questo aspetto e’ molto evidente in alcuni documenti di Confindustria, come ad esempio il rapporto “La Ricerca e l’Innovazione in Italia” del 2003 [2] dove, insieme ad alcune analisi condivisibili, e un forse fin troppo generoso riconoscimento all’innovazione presente in molte industrie italiane, figura la solita litania di lamentele sul distacco tra Universita’ ed imprese. Ovviamente tutta la responsabilita’ viene scaricata sulle Universita’, che vengono accusate di eccessiva autoreferenzialita’ e ignoranza dei problemi delle imprese. Cosa che sara’ anche vera, ma da parte delle imprese, e mi riferisco alla gran massa delle PMI, non vi e’ mai stato il minimo segnale di interesse verso un vero tentativo di sviluppo tecnologico innovativo, al di la’ dell’ovvio interesse per finanziamente agevolati, o riduzioni di imposte, che richiedano la maschera della Ricerca e Sviluppo.

Un altro esempio si puo’ trovare nelle richieste, ed ottenimenti, di fondi della Comunita’ Europea per la specifica voce di sviluppo delle PMI [3]. Nell’ambito del VI Programma Quadro, alla Comunita’ europea sono stati richiesti finanziamenti da consorzi di imprese, universita’ ed enti di ricerca, obbligatoriamente di paesi diversi della Comunita’. La proporzione di proposte accettate con partecipazione italiana e’ nella media europea quando il capofila e’ di altro paese, ed e’ inferiore alla media quando il capofila e’ italiano. Poiche’ in questi finanziamenti europei vi e’ una spiccata attenzione ad un bilanciamento tra i diversi stati, mi sembra evidente che quando la parte italiana e’, per cosi’ dire, non proprio essenziale, la ricerca e’ ritenuta valida, mentre non e’ piu’ vero quando il proponente principale e’ italiano.

D’altra parte anche una lettura della composizione e obiettivi dei cosiddetti “Distretti Tecnologici” creati dal Murst [4], o una visita diretta al pomposo sito della “Rete Italiana per la Diffusione dell’Innovazione e il Trasferimento Tecnologico alle Imprese” [5], lascia intravvedere, tranne forse quelli dell’Emilia Romagna e del Lazio, una totale mancanza di idee concrete, di strategie industriali, ma una evidente corsa ad obiettivi il piu’ delle volte esposti con grandi parole, ma senza alcun vero contenuto, il cui unico scopo sembra quello di accedere ai finanziamenti ed alle agevolazioni statali. L’assoluta, o quasi, mancanza di assorbimento nelle industrie italiane dei laureati piu’ qualificati per la ricerca scientifica, e’ solo un’ulteriore conferma, e qui il discorso si riallaccia a quello delle Universita’ e dei Dottorati di Ricerca.

Ma allora in Italia non vi e’ mai stata della ricerca scientifica applicata?

Non e’ mai stata molta, ma c’e’ stata, e non di bassa qualita’.

Normalmente quando si fanno discorsi del genere viene sistematicamente ricordata, e a ragione, la chimica dei polimeri ed il Nobel di Natta. Ma non c’e’ stato solo quello. C’e’ stata l’Olivetti ed i Personal Computers, la tecnologia nucleare del CNEN, la robotica della COMAU, l’automazione della ELSAG, per arrivare, quasi ai giorni nostri, al Common Rail, brevetto sviluppato dalla FIAT e venduto alla Bosh. Non abbastanza per una nazione industrializzata come l’Italia, ma almeno era qualcosa che difficilmente i cinesi di turno avrebbero potuto facilmente imitare.

Che fine abbia fatto la grande industria che aveva sostenuto queste, e molte altre, ricerche e’ egregiamente illustrato nel libretto di Luciano Gallino [6]. In quel libro e’ anche ben spiegato perche’ senza grande industria, e relativa ricerca scientifica, un paese industrializzato e con alti consumi, e’ destinato ad essere colonizzato, e a scendere velocemente la scala del proprio ruolo economico mondiale, con relativo ridimensionamento del livello di vita dei suoi cittadini.

Poiche’ la tendenza del capitalismo italiano e’ stato, da un certo momento in poi, quello della finanziarizzazione, delle rendite, e dello sfruttamento delle posizioni di monopolio nei servizi, e non il perseguire degli obiettivi di produzione innovativi, il risultato non poteva essere che quello ben illustrato da Gallino.

 

La conclusione di questo discorso e’ che, non essendoci praticamente piu’ grandi industrie in Italia, cioe’ quelle capaci naturalmente di sviluppare la ricerca scientifica e di utilizzarla, e poiche’ le piccole e medie industrie attuali non dimostrano alcuna volonta’ di sviluppare la ricerca scientifica, e non sono strutturalmente in grado di farlo, o ci rassegnamo ad un lento declino, ormai non piu’ tanto lento, o inventiamo qualche cosa di nuovo, qualche struttura organizzativa che permetta di realizzare il miracolo di sviluppare la ricerca e trasmetterla a industrie capaci di usarla.

Al momento attuale non credo si sappia come fare, per cui e’ abbastanza infantile, o meglio, e’ tipicamente italiano, richiedere a gran voce il salvifico aumento dell’investimento nella ricerca scientifica, cosa che e’ assolutamente necessaria come punto di partenza e per riequilibrare certi rapporti di lavoro che sono contrari a tutto il resto del mondo, ma che da sola non risolve assolutamente il problema fondamentale. Ne’ lo puo’ risolvere il proliferare di iniziative quali Portali, Reti, Consorzi, Parchi, tanto pieni di buone intenzioni a parole quanto vuoti di ogni vera iniziativa che porti l’industria italiana ad essere capace, al proprio interno, di capire cosa e’ la ricerca scientifica, e di imparare ad usarla, apprezzando, anche economicamente e gerarchicamente, chi la conosce.

Deve essere chiaro a tutti, politici ed imprenditori, nonche’ al mondo della Universita’ e della Ricerca, che deve essere creato, o meglio inventato, un sistema di rapporti completamente diverso. Un sistema in cui ognuno sara’ costretto a perdere alcuni dei privilegi di cui gode oggi, ma che nel tempo portera’ vantaggi a tutti, e probabilmente qualche speranza di una vita migliore ai giovani che stanno affrontando un periodo di totale insicurezza del proprio futuro, in cui la probabilita’ di veder peggiorare il proprio tenore di vita e’ la probabilita’ predominante.

 

 

Bibliografia

 

[1] – P. Bersani, E. Letta: Viaggio nell’Economia Italiana

            Donzelli Editore 2004

[2] – P. Annunziato, G. Schlitzer: La Ricerca e l’Innovazione in Italia

            Confindustria 2003

            http://web2003.confindustria.it/Documento su Ricerca e Innovazione.zip

[3] – MURST - VI Programma quadro di Ricerca e Sviluppo della Unione Europea Dati sulla Partecipazione Italiana – Ottobre 2004

         http://www.miur.it/UserFiles/2050.pdf

[4] – MURST – The Italian Technological Districts

         http://www.miur.it/UserFiles/2050.pdf

[5] – http://www.riditt.it/page.asp

[6] – L. Gallino: La Scomparsa dell’Italia Industriale

         Einaudi 2003

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