Luciano Gallino: Contro la Flessibilità
Michele Castellano
(8/12/2008)

Ho appena finito di leggere il libro di Luciano Gallino “Il Lavoro non è una Merce” [1].
Il sottotitolo è “Contro la Flessibilità” che è appunto il tema fondamentale del libro.
Gallino analizza con molta accuratezza i numeri, le ragioni ma soprattutto le conseguenze della flessibilità del lavoro, ormai chiaramente evoluta in un precariato diffuso.
Io concordo quasi totalmente con l’analisi di Gallino, e nel riassumere le sue opinioni cercherò anche di aggiungere i miei commenti, ma dissento abbastanza dalle sue ipotesi di soluzione, e su questo mi dilungherò ovviamente di più.
Incominciamo dai numeri, che Gallino analizza in modo dettagliato, interpolando tra dati statistici a volte contrapposti, valutando con attenzione la credibilità delle varie stime. Alla fine arriva a stabilire che il numero totale di “persone umane” coinvolto direttamente in quella che è chiamata “flessibilità del lavoro” è in Italia tra i 7 e gli 8 milioni, di cui quelle soggetti a contratti ufficiali (compresi buona parte dei collaboratori a progetto, anche se formalmente risulterebbero lavoratori autonomi) sono tra i 5 e i 6 milioni.
Sono cifre impressionanti, anche rimanendo vicini al limite inferiore della fascia d’indeterminazione, e lo sono ancora di più se si considera come il “lavoro flessibile” sia per lo più una caratteristica dei giovani nel loro ingresso nel mondo lavorativo, ma che poi per loro continua a rimanere tale, per cui il suo peso relativo continuerà ad aumentare col passare del tempo, se le condizioni generali rimarranno quelle attuali. Questi numeri, molto ben documentati, fanno piazza pulita di uno degli argomenti più usati dai difensori della “flessibilità selvaggia”, e cioè che si tratti in fin dei conti di poche persone e per periodi brevi.
Gallino esamina poi le ragioni che hanno portato a questa richiesta di flessibilità. E’ un capitolo controverso, perché cerca di semplificare in pochi concetti una realtà estremamente grande e dai molteplici aspetti, ed è per questo anche un capitolo che lascia molti dubbi e qualche dissenso, pur avendo il merito di chiarire almeno gli aspetti principali del fenomeno.
Tutto parte dalla nuova logica che è lentamente, ma non tanto, risultata vincente negli ultimi decenni del secolo scorso, e cioè la produzione giusto in tempo, accompagnata dalla successiva evoluzione della produzione su domanda. Rese possibili dalla diffusione della rete di comunicazione, dai trasporti sempre più efficienti e a basso costo, queste nuove filosofie di produzione hanno coinvolto, alla fine, anche la gestione del personale, cioè la globalizzazione che poco alla volta coinvolge tutti gli aspetti della vita sociale. La nuova capacità di gestione informatizzata della produzione ha anche reso possibile la suddivisione in elementi ridotti della produzione stessa, ognuno poi posizionato geograficamente nel modo più opportuno, sia per il costo del lavoro che per la disponibilità di manodopera qualificata, delle materie prime o dei prodotti intermedi. Questa suddivisione in strutture con obiettivo limitato, non necessariamente dedicate ad una singola catena di produzione, ma autonome nella gestione del personale sono anche la ragione principale della debolezza della difesa sindacale dei lavoratori.
Non voglio entrare nel dettaglio di questa analisi, anche se è una delle parti più importanti del libro, perché la condivido totalmente e non voglio soffermarmi troppo sulle parti su cui concordo. Voglio invece sottolineare un aspetto che non mi convince, e che rappresenta secondo me una grossa lacuna in questa analisi per il resto estremamente completa. Quelle che descrive Gallino sono le ragioni per lo sviluppo internazionale di una maggiore richiesta di flessibilità del lavoro, ma non spiegano perché, almeno tra le nazioni europee, l’Italia è l’unica in cui questa flessibilità si è tramutata in un precariato diffuso e di cui non si vede la fine, e l’Italia è l’oggetto dell’esame del libro. Gallino sa bene da dove deriva la differenza, per cui non mi è affatto chiaro perché qui sorvoli su questa questione, cercando invece di “omologare” anche la situazione italiana a quella più generale. Probabilmente questa “dimenticanza” è dovuta al fatto che per la soluzione che Gallino proporrà alla fine del libro, questa differenza non ha importanza, ma poiché io ritengo che la sua soluzione non sia attuabile, per valutare possibili alternative bisogna assolutamente tener conto della specificità italiana.
Non ci sono praticamente multinazionali che abbiano in Italia il proprio centro decisionale, mentre molte industrie italiane fanno parte di multinazionali straniere, e seguono quindi le strategie di ramificazione e gestione di queste reti. La gran parte delle piccole e medie industrie italiane sono già di dimensioni tali da rappresentare l’unità minima di produzione, e spesso ne sono al di sotto, non riuscendo ad acquisire un ruolo più che locale. Data la loro natura, come fornitori intermedi o di prodotti a basso valore aggiunto, sono di fatto obbligate, tutte, ad accettare le leggi della rete globale descritta in precedenza. Il loro settore di attività, tranne le sempre presenti eccezioni minoritarie, li pone però in diretta concorrenza con i loro equivalenti situati nei paesi emergenti, in cui il costo del lavoro è estremamente minore.
Per la tipica industria italiana quindi, e per tutti i servizi che si porta con sé, il lavoro flessibile non è solo, e non principalmente, la via per una maggiore efficienza, l’adeguamento della gestione della risorsa umana a quanto già fatto per le altre merci, ma rappresenta soprattutto una forte diminuzione del costo del lavoro, condizione spesso essenziale per la sua stessa sopravvivenza, quando il differenziale di automazione e di qualità che ne aveva permesso la crescita incomincia a venire meno [2].
Questo minore costo è sostanzialmente dovuto al ridotto peso dei contributi previdenziali, che spesso sono proprio zero, ma anche alla possibilità di ottenere un maggiore numero di ore di lavoro rispetto al contratto senza praticamente retribuirle, grazie al potere di ricatto del rinnovo del contratto stesso.
A questa corsa verso la riduzione del costo del lavoro partecipa anche molto volentieri la Pubblica Amministrazione che, incapace di razionalizzare la propria struttura ed aumentare l’efficienza per addetto, ha incominciato a riempirsi di personale precario a costo molto basso, risparmiando addirittura sugli stipendi dei mesi estivi degli insegnanti.
Per tutto questo l’osservazione dell’OCSE che la flessibilità non solo non fa aumentare l’occupazione, ma non aumenta nemmeno la produttività, risulta inessenziale nella realtà italiana, in cui l’unica cosa che importa veramente è la riduzione del costo del lavoro.
Il passaggio dalla flessibilità del lavoro al precariato come destino di vita è analizzato estremamente bene da Gallino, e non ho niente da aggiungere o commentare a riguardo, a parte tornare ad osservare che la situazione italiana è di gran lunga la peggiore in Europa, e ormai una intera generazione si trova ad avere la vita ridotta ad una penosa ricerca, quasi giorno per giorno, di qualche motivo per pensare di avere un futuro. E questo destino si avvicina anche per la generazione successiva, se non si troverà rapidamente un rimedio.

Prima di passare alle ipotesi di soluzione del problema del precariato, vorrei sottolineare un breve inciso di Gallino, che credo abbia un’importanza ben superiore alla brevità della sua esposizione. Gallino contesta, basandosi su numeri concreti ed ufficiali, una specie di mito secondo cui lo sviluppo della società dell’informazione e delle cosiddette ITC, insieme con quello della net economy, parcellizzata, diffusa, reticolare, stiano portando alla scomparsa dei lavori salariati tradizionali a favore di attività più libere, di più alto livello ed autonome. A parte il fatto che questa ipotetica evoluzione sarebbe limitata esclusivamente ai paesi più industrializzati, mentre nei paesi dove avviene la delocalizzazione si assiste invece ad un aumento del lavoro salariato, anche sfruttato pesantemente, nemmeno nei paesi evoluti è vero che si assista alla scomparsa del lavoro subordinato, organizzato e diretto alla vecchia maniera. Un gran numero di lavori di basso livello, specialmente nell’agricoltura, rimangono esattamente come erano nel passato e non possono essere modificati. Ma non solo nell’agricoltura, perché anche nei servizi si hanno sempre di più dei lavori a basso livello, ripetitivi, basati più sull’intensità che sulla qualità, e spesso pagati a cottimo. Basti pensare alla proliferazione dei call-center di tipo assistenziale, dove non vi è alcun intervento tecnicamente significativo, o ancora peggio quelli propositivi, dove lo scopo è proporre qualcosa ad un potenziale cliente e si viene pagati (molto poco) a contatto eseguito. Gallino in poche pagine distrugge del tutto questa illusione tipica delle fantasie dei fanatici della “Comunicazione” che va tanto di moda.

Arrivando infine alle tesi finali di Gallino, cioè alle ipotesi di soluzione del problema della flessibilità, mi trovo a dissentire abbastanza sensibilmente dalle sue opinioni, e cercherò di spiegare perché, rendendomi conto che non è certo un confronto tra pari, essendo troppo superiore la competenza di Gallino rispetto alla mia, ma spero di riuscire a chiarire i miei dubbi, che mi sembrano piuttosto logici e ragionevoli.
Il ragionamento di Gallino parte dal concetto che per quanto riguarda la flessibilità del lavoro si può cercare di curarne i sintomi o invece le cause, essendo i due obiettivi rapidamente divergenti e quindi non perseguibili contemporaneamente.

Per cura dei sintomi Gallino intende l’accettazione, da parte di tutte le forze politiche, dell’utilità della flessibilità per lo sviluppo industriale e una maggiore occupazione, accompagnata da politiche attive di sussidi alla disoccupazione, formazione continua dei lavoratori e assistenza diretta per il reimpiego che cerchino di rendere più garantito il lavoro e non il posto di lavoro. Esempio concreto di questo è la legislazione danese, anche se molte delle iniziative si possono ritrovare in precedenza in Olanda, che va sotto il nome di flessicurezza (flexsicurity).
Gallino ha però facile gioco nel dimostrare che un regime di protezione e garanzia equivalente a quello danese sarebbe economicamente insostenibile per l’Italia, ma mi sembri sottovalutare alcune delle ragioni principali per cui questo avviene, e cioè perché il lavoro flessibile, ormai incancrenitosi in precariato, è più diffuso in Italia che negli altri paesi europei, e le risorse pubbliche che possono essere dirottate verso il sostegno al lavoro sono limitate dal fatto che non si vuole assolutamente toccare la tassazione delle rendite né affrontare decisamente l’evasione fiscale. Inoltre il costo della politica è ormai a livelli esorbitanti, e senza un feroce attacco a questi elementi che differenziano l’Italia dagli altri paesi, le risorse saranno sempre poche per qualunque obiettivo. Basta vedere come Tremonti annaspi in questi giorni per trovare due soldi che possano almeno far finta di voler mantenere le promesse elettorali populistiche fatte a suo tempo, ma senza ovviamente voler intaccare le miniere di risorse di cui ho detto prima.
A me sembra quindi, pur riconoscendo la validità del discorso di Gallino, che all’Italia le risorse manchino sostanzialmente per la presenza di un’industria asfittica, alla ricerca della compressione dei costi, quello del lavoro in primis, più che a sviluppare nuovi prodotti, inventare nuovi mercati, e con le élite economico-politiche dedite a sfruttare le rendite, con poca propensione agli investimenti produttivi. In una situazione del genere, le risorse mancano per qualsiasi cosa non sia il mantenimento dei privilegi esistenti.
E arriviamo ora a quella che per Gallino è la cura della causa. Dopo l’analisi accurata di come la struttura sovranazionale delle multinazionali sia ormai in grado di spostare ogni atto della propria attività nella parte del mondo in cui può derivarne il massimo vantaggio, e che quindi nessuno Stato è più in grado di porre condizioni o limiti alle attività di queste organizzazioni transnazionali, Gallino osserva come le indicazioni diciamo “etiche” di organizzazioni come l’ONU o l’OCSE in termini di trattamento minimo del lavoro salariato in qualunque parte del mondo rimangano indicazioni velleitarie perché non accompagnate, e non accompagnabili, da alcuna capacità impositiva. La sua proposta è quindi che siano gli Stati in cui le Corporations transnazionali hanno sede a dover imporre alle stesse l’obbligo di un trattamento adeguato, secondo gli standard definiti dalle organizzazioni internazionali, per i propri salariati in ogni parte del mondo. Gallino ritiene cioè che per difendere gli interessi e il tenore di vita della propria popolazione, ogni Stato debba imporre alle Società transnazionali che hanno sede ufficiale al proprio interno di mantenere un adeguato trattamento ovunque, nella speranza che questo serva ad elevare il tenore di vita generale, ad equilibrare sostanzialmente le richieste salariali, e ad evitare il gioco di contrapposizione tra esigenze e disponibilità di diverso livello così efficace attualmente.
Onestamente questa proposta mi sembra paragonabile a quella della Chiesa Cattolica che spera di risolvere i problemi del mondo augurandosi che ogni persona “ami il prossimo suo come se stesso”. Che è un augurio condivisibile, ma con assai scarsa probabilità di divenire un comportamento generalizzato.
Io credo che Gallino si illuda se ritiene che a dichiarazioni contro lo sfruttamento dei lavoratori del terzo mondo da parte dei governi occidentali possano poi seguire, da parte degli stessi, azioni concrete accompagnate da adeguate sanzioni contro le aziende che in questi stati hanno la loro sede sociale. Di là dai dettagli tecnici in cui Gallino si dilunga, di cui però non voglio discutere perché non mi sembrano essenziali, le ragioni per cui ritengo illusoria la sua proposta sono molte e diverse. A cominciare dal fatto banale che se gli Stati non sono in grado di regolare le azioni delle Società Transnazionali nelle loro operazioni all’interno degli Stati stessi, ben difficilmente possono porre condizioni al comportamento di sussidiarie, di cui è anche difficile ricostruire la catena di dipendenza societaria, operanti in un paese in via di sviluppo. Inoltre la sede sociale di una tale Società risiederà in un certo Stato solo e fintanto sarà ritenuto vantaggioso da parte della Società stessa, pronta come sempre a scegliere una sede diversa perseguendo il proprio tornaconto. La difficoltà che si incontra nell’eliminare, o anche solo limitare, i cosiddetti “paradisi fiscali” dovrebbe far ben capire che quando si toccano interessi di tale mole, non basta la buona volontà di questo o quell’esponente di un governo nazionale per modificare realmente la situazione. Sarebbe una cosa diversa se ci fosse una vera convergenza di opinione tra tutti i governi mondiali, nessuno escluso, perché solo allora sarebbe possibile imporre regole ed avere la forza di farle eseguire. Questo corrisponderebbe però ad un governo mondiale, l’unico in grado, ormai, di regolamentare l’azione di Società che hanno il mondo intero come campo d’azione, ma siamo molto lontani da una situazione del genere, per cui al momento imporre comportamenti “etici” alle Società Transnazionali credo sia di fatto impossibile.
Anche l’ipotesi che basterebbe la volontà di pochi ma potenti governi per riuscire almeno a costringere una parte di queste Società verso comportamenti di minore sfruttamento del lavoro, e quindi mettere in moto un processo positivo, mi sembra illusoria, poiché non tiene in conto che molto difficilmente si potrebbe trovare anche solo un accordo del genere, se questo dovesse significare una evidente perdita di competitività per le Società costrette da una regola del genere rispetto a quelle che riuscissero ad evitarla. Le “regole” che Gallino ritiene necessarie, oltre che essere genericamente “umanitarie”, porterebbero lentamente a ridurre la differenza di tenore di vita tra i paesi sviluppati e quelli più poveri, evitando quindi la lotta al costo più basso in atto ora. Poiché è evidente che le risorse della Terra sono finite, un forte aumento del tenore di vita dei popolosissimi paesi in via di sviluppo, come sta in parte già avvenendo per Cina ed India, comporterebbe necessariamente un riequilibrio verso livelli di consumo individuali inferiori a quelli attualmente in atto nei paesi più ricchi. Questo “livellamento in basso” è probabilmente inevitabile, ma credo sia del tutto illusorio pensare che possa essere ottenuto semplicemente in base a discorsi razionali sull’equilibrio del costo del lavoro. Saranno probabilmente necessarie delle vere e proprie guerre commerciali, con le ovvie conseguenze di sofferenze generalizzate (e ci si può solo augurare, perché l’esperienza passata è del tutto negativa, che non si arrivi a guerre vere e proprie) prima che una stabilizzazione del genere si ottenga, e solo un governo realmente “mondiale”, almeno di fatto se non di diritto, avrebbe la forza necessaria per poterla imporre e mantenere.
Quindi io credo che rifiutare le cure dei sintomi in favore di una ipotetica cura delle cause di questo genere sia del tutto sbagliato. I sintomi però vanno curati in modo adeguato, e per il caso italiano il problema non è semplicemente garantire il diritto al lavoro in presenza di flessibilità del lavoro stesso, e quindi trovare le risorse necessarie, ma anche rompere la spirale verso l’emarginazione della struttura industriale, che è una causa, e forse la principale, sia della pressione sul costo del lavoro che della mancanza di risorse per gestirla.

In conclusione, questo libro di Gallino è un ulteriore esempio di un fatto piuttosto normale: è tutto sommato facile trovare delle ottime analisi della situazione economica italiana, ma è estremamente difficile trovare delle soluzioni che siano realistiche ed attuabili in concreto.

Bibliografia

[1] L. Gallino – Il Lavoro non è una merce. Contro la flessibilità
Edizioni Laterza 2007

[2] M. Castellano – Flessibilità o Precariato
 http://www.webalice.it/michele.castellano/politica/Note/Flessibilita' o precariato.html

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