L’Italia e l’innovazione tecnologica

Michele Castellano
(28/04/2007)

 

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Qualche tempo fa e’ apparso il rapporto sulla "Condizione Occupazionale dei laureati italiani" presentata a Bologna da AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario a cui aderiscono 49 università italiane. I dati sono quelli della nona indagine sulla "Condizione Occupazionale dei laureati italiani".
Il rapporto completo puo’ essere trovato in [1], ma un buon riassunto e’ quello di Federico Pace su Repubblica [2].
Prima di commentare i risultati di questo rapporto, credo valga la pena di leggere anche quello che ha detto, a caldo, il Ministro della Ricerca Mussi [3].

Il rapporto presenta una situazione veramente preoccupante, con un’enorme presenza di occupazione temporanea, molto piu’ prolungata di quanto sarebbe ragionevole per una verifica della capacita’ personale, in vista di un impiego definitivo. Ma l’elemento piu’ evidente e’ il notevole ritardo dell’inserimento nel mondo del lavoro rispetto all’aquisizione del titolo. Questo succede normalmente se non vi e’ coerenza tra la preparazione accademica e l’ambiente di lavoro. Anche considerando che vi e’ una fortissima differenza tra i diversi tipi di laurea, rimane il fatto che il mercato del lavoro italiano non trova di proprio interesse l’assunzione di persone con alta qualifica, perlomeno non a livello stipendiale adeguato alla loro capacita’ potenziale.
Questo e’ un problema che avevo gia’ sottolineato in un precedente articolo [4], ma che sta diventando sempre piu’ evidente.
A questo proposito si inserisce perfettamente l’osservazione di Mussi che in Italia abbiamo in ogni caso un basso numero, relativamente alla popolazione, di laureati.
Quindi non solo i laureati sono pochi, ma non trovano nemmeno lavoro adeguato, nonostante la proliferazione di corsi di laurea cosiddetti innovativi, che pretenderebbero di adeguare meglio la preparazione accademica alle richieste del mercato del lavoro di una societa’ ormai totalmente terziarizzata, ma che in realta’ si limitano ad offrire percorsi formativi meno impegnativi.
Al di la’ di una certa responsabilita’ accademica di carenza di preparazione, piu’ evidente in alcuni settori, ma che e’ in ogni caso un problema estremamente limitato, quello che risulta evidente e’ una differenza fondamentale tra gli obiettivi dell’insegnamento superiore e le richieste lavorative. In realta’ in Italia non vi e’ stata una totale presa di coscienza del fatto che una scolarizzazione di massa ai piu’ alti livelli non significa automaticamente un inserimento in lavori ben remunerati e gratificanti. L’esempio degli Stati Uniti, per quanto ancora abbastanza lontano dalla nostra situazione reale, dovrebbe far pensare. Negli USA e’ abbastanza frequente trovare laureati, specialmente in materie umanistiche, che fanno lavori di basso livello, come portieri d’albergo o camerieri. La “cultura” individuale, che per chi proviene dalle universita’ di massa non e’ poi nemmeno molto alta, non ha molto a che fare con il lavoro che ognuno e’ poi in grado di trovare per condurre la propria vita.
In altre parole, la spinta verso una maggiore diffusione di una istruzione superiore, fino a farne un fenomeno di massa, e’ dovuto alla struttura del mondo del lavoro dei paesi industrializzati, in cui sia le industrie manufatturiere, nella loro divisione internazionale del lavoro, che quelle dei servizi richiedono la disponibilita’ di manodopera di instruzione media piu’ alta. Ma cio’ non significa affatto che il raggiungere i gradi piu’ elevati di istruzione comporti quasi automaticamente l’accesso all’elite dirigenziale come era vero, almeno in gran parte, nel periodo in cui i laureati erano una piccola frazione percentuale.
Questo fenomeno ha comportato negli USA una separazione tra le universita’ dedicate all’istruzione di massa e quelle dedicate alla ricerca di punta e all’istruzione di eccellenza. Un processo analogo, a diversi livelli di sviluppo, e’ in atto nei paesi europei. In Italia e’ ancora dominante il concetto che ogni universita’ debba essere contemporaneamente sede di istruzione di massa e centro di eccellenza per la ricerca e l’istruzione, nonostante le difficolta’ di questa coesistenza diventino sempre piu’ evidenti. Anche su questo argomento ne avevo scritto in un articolo precedente [5].
Per il momento si e’ assistito ad un proliferare di nuovi percorsi didattici a bassissimo coefficiente di difficolta’, con nomi accattivanti, alla moda, che intasano il normale funzionamento delle universita’, sono fonte di clientelismo spinto nell’assegnazione, spesso per poche lire, di incarichi di insegnamento, e generano solo una massa di “laureati” sostanzialmente ignoranti e candidati quasi sicuri alla disoccupazione o ad impieghi per cui il possesso di qualunque tipo di laurea e’ del tutto inessenziale.
Nonostante cio’, il numero di laureati italiani e’ inferiore alla media europea e a quella dei paesi industrializzati, ed i laureati trovano molte difficolta’ ad inserirsi nel mondo del lavoro, anche quelli che si sforzano di seguire corsi di istruzione piu’ tradizionali ed estremamente piu’ impegnativi, per cui ormai ogni universita’ ha introdotto qualche forma di incentivo all’iscrizione, vista la forte riduzione degli anni passati.
E’ evidente che il problema non e’ l’universita’, ma il mondo del lavoro che non ha bisogno, in media, di persone di alto livello di istruzione, e se anche le assume, non e’ disposto a pagarle quanto dovrebbe, perche’ non e’ in grado di utilizzarle per la loro vera capacita’.
Una ragione risiede sicuramente nella composizione dell’industria italiana stessa, concentrata massicciamente nel settore medio-piccolo, con un numero medio di addetti dell’ordine della decina. In questa situazione una persona di alta istruzione, specialmente tecnica, e’ del tutto inutile, poiche’ sicuramente un’industria del genere non fara’ ricerca ne’ vera innovazione.
Questo lo avevano notato molto bene Bersani e Letta nel loro giro per i distretti industriali italiani [7], dove, pur riconoscendo una continuativa vivacita’ di molti dei distretti, non possono fare a meno di osservare la continua perdita di competitivita’ dovuta ai settori troppo spesso del tutto maturi in cui operano, alle dimensioni troppo piccole delle singole industrie, problema cui le sinergie del distretto non possono mettere completo riparo, ma principalmente alla mancanza di innovazione e alla totale assenza della ricerca che e’ il motore propulsivo dell’innovazione stessa. Analisi molto accurata, la loro, ma non accompagnata da una proposta politica adeguata a risolvere il problema, in quanto si limita a prospettare un generico incremento degli investimenti in ricerca da parte dello stato (doverosi) e l’uso un po’ meno a pioggia rispetto al passato degli sgravi fiscali e dei contributi per chi investe in innovazione. Buoni propositi, di cui non vi e’ pero’ ancora traccia nell’operato del loro governo attuale, ma del tutto insufficienti e con una ridotta capacita’ di leva operativa, cioe’ di amplificare positivamente gli effetti degli investimenti diretti.
Come avevo gia’ detto in uno dei miei primi articoli sull’argomento [6], e’ vero che l’industria italiana svolge molta poca ricerca, ma la cosa di gran lunga peggiore, cui bisogna porre rimedio come prima azione, e’ la sua incapacita’ ad usare anche quella fatta da altri, a dirigere la ricerca fatta da universita’ ed enti di ricerca verso direzioni a lei utili, ed a sfruttarla per innovare realmente i prodotti ed incominciare a togliersi dalla spirale senza fine della corsa alla riduzione del costo del lavoro coi paesi in via di sviluppo. Questa incapacita’ e’ dovuta all’inadeguatezza scientifica del personale utilizzato dalle aziende, che non e’ in grado di svolgere in modo opportuno il ruolo di interfaccia con il mondo della ricerca, di identificare gli aspetti sfruttabili industrialmente tra tutti i risultati di una ricerca che, per ovvi motivi, e’ molto piu’ generica, e non e’ in grado di tradurre i risultati di una ricerca, anche se applicativa, in un prodotto che puo’ essere venduto con profitto, che non e’ la stessa cosa di produrre un buon prodotto.
Questo aspetto e’ propedeutico a tutti gli altri: e’ inutile finanziare ulteriormente la ricerca, dare contributi e/o sgravi fiscali alle aziende, se queste non si attrezzano prima con il personale adeguato, pagandolo ovviamente come deve essere pagato e gestendolo con la liberta’ di movimento, nell’ambito degli interessi industriali dell’azienza, che e’ richiesta dal potersi rapportare con il mondo della ricerca e riuscire a sfruttarla.
Le piccole aziende non hanno la possibilita’ di fare questo passo, e quindi non hanno la possibilita’ di crescere, ma collettivamente, sull’esempio dei distretti, e con l’aiuto dello stato, delle universita’ e degli enti di ricerca, qualche cosa si potrebbe fare, purche’ sia chiaro fin dall’inizio che il fine ultimo e’ la crescita dimensionale di qualcuna tra le varie aziende, non tutte, ovviamente, che permetta poi l’autosostentamento dell’attivita’ di ricerca. Di fatto devono essere disponibili a partecipare ad una gara ad esclusione, in cui solo i migliori prevarranno inglobando gli altri. L’alternativa e’ pero’ un lento ma inevitabile degrado generale.
La dimensione delle aziende italiane e’ pero’ solo uno degli aspetti, oggi forse il piu’ evidente, ma non l’unico di qualche importanza. In un suo famoso libretto [8], diventato ormai un classico che tutti in Italia dovrebbero aver letto, Luciano Gallino analizza il come, proponendo anche qualche perche’, sia scomparsa gran parte della grande industria italiana, quella che ha fatto e sfruttato la ricerca per buona parte della seconda meta’ del secolo scorso, con risultati molto positivi, ed alcune volte di vera eccellenza.
Non ho certo intenzione di riassumere il libretto di Gallino che, ripeto, merita di essere letto da tutti, mi limito quindi a sottolineare un aspetto che e’ diventato ancora piu’ evidente da quando Gallino ha scritto il suo libro. Il capitalismo italiano, o meglio i capitalisti italiani, i piu’ grandi, quelli delle Famiglie che controllavano gran parte della grande industria, nonche’ i manager piu’ importanti, da un certo momento hanno privilegiato l’investimento finanziario a quello industriale. Anche quando apparentemente si impossessavano di una industria, come nel caso di molte privatizzazioni delle grosse industrie di stato, non e’ piu’ stato per svilupparla, per migliorarne il prodotto e conquistare nuovi mercati, ma e’ sempre stato un gioco di controlli incrociati, di ruolo sullo scacchiere finanziario. Il prodotto finale era la rendita, non il profitto industriale. L’assurdo meccanismo di controllo delle banche italiane, ben lungi dall’essere risolto anche oggi, ha alimentato questa tendenza. Devo riconoscere che e’ in fin dei conti una tendenza internazionale, pero’ solo in Italia ha assunto un ruolo talmente dominante da portare ai risultati cosi’ ben illustrati da Gallino.
Nella campagna elettorale che ha preceduto la vittoria dell’attuale governo Prodi, si erano sprecate le valutazioni negative sull’eccessiva pressione fiscale sul lavoro e l’industria rispetto alle rendite, e si auspicava un, seppur lieve, riallineamento del loro rapporto, almeno verso una maggiore uguaglianza al valore medio europeo. A tutt’oggi si sta ancora aspettando, ma senza alcuna speranza che si faccia qualcosa, visto il silenzio tombale che accompagna l’argomento.
Se il vantaggio fiscale delle rendite non viene almeno in parte diminuito, e’ difficile che il capitale si diriga autonomamente verso impieghi industriali, rimettendo in moto una macchina da tempo praticamente ferma. E non bastera’ nemmeno il riaggiusto della pressione fiscale relativa per convincere i possessori di capitali a rischiarli in attivita’ produttive, che se anche dessero un minore profitto netto, sarebbero in ogni caso molto piu’ utili socialmente, per la diffusione del reddito che comporterebbero. Gli economisti , anche quelli rampanti che spopolano sulle pagine dei maggiori quotidiani, questo lo sanno molto bene, ma sembra essere un discorso proibito, poiche’ preferiscono impegnarsi in esibizioni di liberismo spinto, il cui fine principale e’ di aumentare i profitti, specialmente finanziari, a scapito del lavoro. Delle vere aquile intellettuali.
Tornando al problema dell’innovazione industriale, c’e’ un recente libretto di Francesco Daveri che analizza il problema [9]. Daveri dimostra, dati alla mano, che in Italia vi e’ da alcuni decenni una sensibile diminuizione del tasso di crescita generale della produttivita’, tanto da aver di molto avvicinato il momento in cui iniziera’ anche a diminuire il tenore di vita medio. Ci si sara’ cioe’ mangiati tutto il “bene” dello sviluppo economico precedente. Esiste poi una stretta correlazione tra crescita della produttivita’ e livello di innovazione tecnologica, che e’ a sua volta fortemente dipendente dalla spesa generale per la ricerca. Si sta parlando in termini del tutto globali, di medie per l’intero paese, ma il risultato e’ evidente e non si discosta da quanto osservato in precedenza, Daveri fa pero’ una proposta che merita di essere valutata attentamente.
Parte dall’osservazione che la maggiore innovazione la hanno i paesi che investono di piu’ in ricerca militare. Non so se si renda conto del perche’ questo e’ vero, ma e’ una delle poche persone che ho sentito fare questa osservazione. L’osservazione e’ corretta per il modo e gli obiettivi della ricerca militare, che si occupa solo in minima parte dello sviluppo di armi in senso stretto, ma punta sopratutto a trovare ad ogni costo, letteralmente, un minimo vantaggio tecnologico su tutti i concorrenti. La ricerca militare, che piu’ spesso di quanto si pensi e’ ricerca di base o ricerca applicata di livello generale, e’ l’unico settore di ricerca in cui si fa pochissimo uso del rapporto costo/beneficio nel valutare l’opportunita’ di un investimento, o meglio, il beneficio, per quanti piccolo ed improbabile, predomina quasi sempre. Questo comporta indubbiamente anche un mucchio di soldi spesi per ricerche che non portano a risultati tangibili, ma anche a tanti piccoli passi avanti, nuove tecniche e nuovi materiali sviluppati a volte senza un obiettivo vero e proprio, con fortissime ricadute successive nel mondo civile, e che non si sarebbero mai ottenute se per ogni piccolo passo si fosse valutato se la spesa conveniva.
Poiche’ Daveri e’ ben cosciente che un grosso sforzo di ricerca militare in Italia e’ improponibile, lancia l’idea, non so quanto originale sua, di concentrare una adeguata frazione di ricerca sulla difesa della salute.
E’ sicuramente vero che quello sanitario e’ il settore in cui e’ piu’ bassa la soglia della valutazione costo/beneficio, perche’ ogni piccolo beneficio si traduce poi in vite salvate o in risparmi in generale nei costi collaterali, per cui e’ quello che piu’ si avvicina alla logica della ricerca militare e merita sicuramente di essere preso in considerazione, tenendo anche conto che e’ possibile ottenere un significativo consenso di pubblico ad investire grandi risorse nella ricerca sanitaria (non esclusivamente medica).
Va pero’ anche valutato che si rivolge a settori scientifici e a tecnologie industriali abbastanza particolari, che non coprono il panorama generale dell’industria italiana. Puo’ essere l’occasione, se ci si impegna seriamente, per creare dei poli avanzati, una industria competitiva a livello mondiale in settori non ancora maturi, ma non puo’ essere esaustivo dello sforzo verso la stimolazione dell’innovazione che e’ necessario applicare a tutta la nostra industria nei settori avanzati, perche’ non si puo’ ripetere l’errore di rimanere fuori da settori che sono in fin dei conti industrialmente e commercialmente strategici.
Un’ultima osservazione, gia’ fatta da Gallino, ma diventata di estrema attualita’ in questi giorni in cui si sta discutendo del futuro proprietario di Telecom, una delle poche industrie italiane a fare, almeno fino a poco tempo fa, della ricerca seria.
E’ vero che in un sistema ormai globalizzato dovrebbe avere poca importanza la natura della proprieta’ di un’azienda, ma poiche’ non siamo ancora totalmente globalizzati, e rimangono differenze sostanziali tra una parte ed un’altra del mondo, di che nazionalita’ sia la proprieta’ di un’azienda potra’ contare poco per l’aspetto distributivo di un prodotto, conta gia’ di piu’ per quello produttivo, ma e’ essenziale per le parti progettuali e di ricerca, poiche’ si tende ovviamente ad evitare sprechi e concentrare questi aspetti dove sono piu’ efficienti. In questo periodo storico e’ difficile che questo posto possa essere l’Italia.

 

 

Bibliografia

 

[1] - http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione05/

[2] - http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/scuola_e_universita/servizi/alma-laurea-laurea/alma-laurea-laurea/alma-laurea-laurea.html

[3] - http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/scuola_e_universita/servizi/alma-laurea-laurea/mussi-mattanza/mussi-mattanza.html

[4] – Michele Castellano – Il Dottorato di Ricerca

[5] – Michele Castellano – Universita’ di Massa e Centri di Eccellenza

[6] – Michele Castellano – Investire nella Ricerca Scientifica

[7] – Pierluigi Bersani ed Enrico Letta – Viaggio nell’Economia Italiana

Donzelli Editore 2004

[8] - Luciano Gallino – La Scomparsa dell’Italia Industriale

        Einaudi 2003

[9] – Francesco Daveri – Innovazione Cercasi – Il Problema Italiano

        Editori Laterza 2006

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